24 de julio de 2018

Conferencia Magistral

Filippo Neri:

Il cuore palpitante nella riforma cattolica della s. XVI*

Espositore: R.P. LUCIANO GIUSEPPE BELLA C.O.

Sono personalmente onorato di essere presente qui con voi, fratello tra i fratelli, per fare memoria viva del metodo oratoriano e vivere insieme la missione profetica delle nostre Congregazioni. Prendendo parte a questo Convegno Internazionale sapientemente organizzato dalla Federazione Messicana dell’Oratorio, che si pone l’obbiettivo di ragionare su “L’Oratorio: tra memoria e profezia” sono stato chiamato a dare un mio contributo che miri a scrutare il cuore di Filippo Neri, a sentirne il palpito e a testimoniare quel suo grande amore per l’uomo del suo tempo, riverbero di quell’altro grande amore per il Signore e per la Chiesa, a tal punto da divenire profeticamente ispiratore di un cammino di riforma, in un periodo assai problematico quale fu il Rinascimento italiano. Procederò secondo un metodo circolare che prenda in esame le diverse categorie della vita spirituale del Neri per poi riproporle non nella consequenzialità del loro susseguirsi storico-biografico, ma alla luce del loro ritorno periodico e quindi rileggere il tutto a partire da quell’effettiva influenza che padre Filippo ebbe nella riforma della società romana del XVI secolo.

A rendere più suggestivo lo sviluppo di questa tematica è il taglio che si vuole dare e che mira a sottolineare il valore profetico della via oratorii inaugurata da san Filippo Neri, diremmo sgorgata dal palpito del suo cuore, e che si rivelerà capace di cogliere l’irruzione traboccante del “divino” che accoglie ed eleva tutto ciò che è umano. Fin da ora va precisato che padre Filippo giammai fu un teorizzatore anche se non mancò delle qualità potenziali per esserlo. Egli è tutto fuorché un teorico, la sua arte pedagogia, la sua capacità nell’accompagnamento spirituale ed i variegati aspetti della sua complessa vita[1] sono per lo più frutto di un’intuizione colta e portata a maturazione, così, l’essere divenuto il “Riformatore di Roma” non sarà la risultante di una teorizzazione a priori.

Di sua penna non abbiamo alcun trattato; le sue idee in materia si identificano con il metodo seguito ogni giorno, nel suo stare tra le persone e trovano fondamento nel culto della libertà individuale, della spontaneità, dell’espansione dello Spirito nella freschezza perenne dell’amore di Dio, temi tutti in cui si veicola lo spirito umanistico di cui egli può considerarsi figlio. Se dunque non vi sono scuole di pensiero da interpretare o saggi da analizzare, per fare nostra la sua intuizione non rimane che la sola fonte della sua vita vissuta.

Filippo Neri, fiorentino di nascita, fu definito l’“Apostolo di Roma” in relazione al fatto che il suo apostolato, senza alcun moto rivoluzionario, fu tale da suscitare una riforma in seno alla Chiesa ed alla società romana. Si consideri che quando si trasferì nella Città Eterna (1534–1535) la riforma della Curia sembrava cosa impossibile, quando poi di fatto morì (1595) la riforma era cosa compiuta. Non a caso è appunto ricordato come il Riformatore di Roma, il più grande forse, non avendo nessun altro lavorato con maggior successo a cambiare il volto della Città Eterna in un periodo definito “disperatamente critico”[2].

Per meglio cogliere il campo di azione del suo apostolato è necessario lanciare uno sguardo in quel retroterra culturale che, nella sua onda lunga, ha prodotto quell’epoca che oggi noi identifichiamo con il termine “Rinascimento italiano”. Si trattò di uno straordinario mutamento dello stato delle cose ed un progresso della civiltà umana. Badiamo bene che un conto è oggi parlare del Rinascimento, un altro, ben diverso, è l’aver vissuto quegli anni. Per essere oltremodo chiari, si è soliti pensare al Rinascimento italiano secondo un’immagine stereotipata quasi idilliaca, come un’epoca armonica di una bellezza edenica. Al contrario di quel nome tanto pacifico che gli è stato dato, in realtà, il Rinascimento fu un’epoca turbolenta una stagione di profonde inquietudini, di sanguinosi rivolgimenti caratterizzati da una diffusa sfiducia nel futuro.

A tal proposito, cala a pennello la celebre battuta di Orson Welles che, sebbene esagerando, porta con sé un fondo di verità. Nel “Terzo uomo” egli, il geniale Welles, fa dire a quel tale: “In Italia sotto i Borgia, per trent’anni, hanno avuto assassinii, guerre, terrore e massacri, ma hanno prodotto Michelangelo, Leonardo da Vinci e il Rinascimento. In Svizzera hanno avuto amore fraterno, cinquecento anni di pace e di democrazia, e che cos’hanno prodotto? Gli orologi a cucù”. Ovviamente non è esattamente così ma il Rinascimento, sebbene sia un’epoca travagliata della storia, è stato attraversato da idee profonde che hanno permesso all’uomo del sedicesimo secolo di generare la modernità. Nelle sue vicissitudini entrano in gioco delle componenti che fecero comprendere all’uomo che, per poter vivere, doveva necessariamente tornare a nascere. Quella del rinascere è infatti l’unica possibilità di sopravvivenza dell’umano in quella stagione dai toni crudi e dalle tinte sanguigne.

Quando Filippo Neri, all’incirca diciottenne, giungerà a Roma constaterà personalmente le penose condizioni della Città Eterna. Erano passati circa 7-8 anni dal “Sacco” avvenuto nel 1527; una tragedia immane per la Chiesa e per la città, una violenza sterminata in cui la città fu posta sotto assedio. In un anno, infatti, i Lanzichenecchi hanno fatto man bassa di tutto, la popolazione di Roma fu dimezzata, epidemie e pestilenze; stragi prolungate profanarono tutte le chiese; le donne di ogni condizione venivano strappate dalle loro case e violentate così pure le monache; furono devastati tutti i palazzi dei prelati e dei nobili; la popolazione fu sottoposta ad ogni tipo di violenza e di angheria; le strade erano disseminate di cadaveri e percorse da scorribande di soldati. Come è facile immaginare si bloccarono i lavori della fabbrica di San Pietro, che ripresero circa sette anni dopo nel 1534.

In tale contesto Pippo Buono comincia a scoprire la natura di una città stupenda ma dal volto misero. Non dimentichiamo che nei primi decenni del XVI secolo la Città Eterna era uno dei centri culturali ed artistici più brillanti d’Europa[3] ma, ora, al presente, era profondamente scossa dalle conseguenze del sacco. Non si trattava solo di una devastazione fisica o materiale, molto di più lo era quella spirituale in quanto la gente aveva perso ogni punto di riferimento e si sentiva profondamente smarrita. Le strade che egli percorreva offrivano l’ambivalenza del macabro spettacolo dei cadaveri degli impiccati davanti a Castel Sant’Angelo, ma anche l’incipit di una ricostruzione materiale. Se la magnificenza dei pontefici infatti permetterà la ricostruzione dei palazzi, la giovialità con cui Filippo comincia a muoversi sarà il preludio di un percorso di speranza che lo porterà ad essere considerato come un “uragano d’amore” su Roma.

Chiariti tali contesti è il caso di precisare che padre Filippo cambiò Roma dal di dentro. Per quanto tale affermazione possa sembrare audace, basterà ricordare le autorevoli parole di san Giovanni Paolo II allorquando ebbe ad affermare che padre Filippo, seppure venga qualificato per antonomasia come il Santo della gioia, deve essere pure riconosciuto come l’Apostolo di Roma, anzi come il Riformatore della Città Eterna, e poi spiega: «Lo diviene quasi per naturale evoluzione e maturazione delle scelte operate sotto l’illuminazione della Grazia. Egli fu veramente la luce ed il sale di Roma. Seppe essere “luce” in quella civiltà certamente splendida, ma spesso soltanto per le luci oblique e radenti del paganesimo. In tale contesto sociale Filippo rimase ossequiante all’Autorità, devotissimo al deposito della Verità, intrepido nell’annuncio del messaggio cristiano. Così fu sorgente di luce per tutti […] seppe calarsi nella miseria umana ristagnante sia nei palazzi nobiliari che nei vicoli della Roma rinascimentale. Egli era, a volta a volta, cireneo e coscienza critica, consigliere illuminato e maestro sorridente. Proprio per questo, non fu tanto lui ad adottare Roma, quanto Roma ad adottare lui»[4].

Nel vasto movimento culturale rappresentato da quest’epoca possiamo attestare come la riforma protestante fu preparata dall’operosità degli umanisti; si pensi a personalità come Lorenzo Valla, Marsilio Ficino, Giovanni Pico della Mirandola, Erasmo da Rotterdam. Questi, desiderosi di giungere ad un più attento studio filologico dei testi antichi, favorirono un felice connubio tra la rinascita culturale e le istanze religiose popolari, fino a denunziare idee ed atteggiamenti in contrasto con il genuino spirito evangelico e con l’autentico insegnamento dei Padri della Chiesa. Di conseguenza anche nell’ambiente ecclesiastico si sentiva il bisogno di una messa a punto della questione religiosa insieme a quella politica e sociale. La riforma urgeva e se ne era trattato nei concili[5] di Costanza (1414-1418) e di Basilea (1431-1437) e l’avevano invano invocata anche san Bernardino da Siena[6] ed il Savonarola[7],,ma solo la sfida alla Chiesa “papale” rappresentata dalla riforma protestante convinse anche il vertice della Chiesa a ritornare ad una cristianizzazione fondata sul Vangelo[8].

La riforma di fatto esplose ma tradendo quelle attese umanistiche da cui procedeva. La Chiesa cattolica reagì al diffondersi delle idee dei riformatori protestanti, sia con la fondazione dell’inquisizione romana (1542)[9], sia con una più vasta opera di rinnovamento[10]che culminò con il Concilio di Trento[11] (1545-1563). Non dimentichiamo che il precisare ed all’occorrenza riformulare le verità cristiane poteva divenire di fatto operante solo quando la Curia avesse posto mano all’attuazione dei decreti. Qui entra in gioco il ruolo svolto dal sorgere delle nuove istituzioni religiose, fra le quali spicca l’Oratorio di san Filippo Neri[12], che diedero uno sviluppo concreto alla riforma cattolica.

Sebbene siamo certi del fatto che Filippo Neri non si ritenne mai artefice di alcuna riforma in seno alla Chiesa e pertanto non volle mai occuparsi di ciò come tema specifico del suo apostolato, di fatto la forza espressiva del suo carisma, esercitato nella Città Eterna per oltre sessant’anni ininterrotti, provocò un tale movimento che lo fece passare alla storia come uno dei cardini dell’opera di riforma. Si consideri il modo con il quale radunò attorno a sé un gruppo eterogeneo di persone facendone una comunità. Mi riferisco sia all’Oratorio, ma anche alla Congregazione, autentica profezia di una vita comune vissuta senza voti, nata a servizio dell’Oratorio.

Proprio in un’epoca di sospetti e di timori, il Neri, riusciva a proporre quei valori e a far risuonare quei temi che, se messi troppo in evidenza, apparivano pericolosi ed erano visti con sospetto. La sua importanza per il rinnovamento morale di Roma la si scoprirà pian piano con il tempo, per intanto la sua forza era proprio in quel gruppo di laici, giovani, uomini di variegate stratificazioni sociali, persone pie e di cospicua intelligenza che vennero educati – diremmo meglio catechizzati – sulla vita interiore e sulla profonda conoscenza del cristianesimo, i quali, poi, ciascuno nella propria cerchia, diffusero e fecero fruttificare lo spirito avuto da Filippo.

Quello a cui diede vita padre Filippo con l’impronta indelebile del suo spirito, era dunque un genere di apostolato di marcata indole laicale[13]. L’Oratorio doveva servire come strumento per portare il Vangelo nelle più vaste diramazioni della popolazione. In tal modo si attuò un cambiamento radicale dei costumi e della società anche grazie alla libertà creativa delle diverse espressioni artistiche, felicemente rintracciabili al suo interno. Non a caso tra i suoi figli spirituali ritroviamo poeti, letterati, architetti, pittori, uomini di scienza, segno di una fede ragionata ed al passo con i tempi, capace di cogliere la bellezza della vita nuova in Cristo. Un genere di apostolato che proprio per questa sua connotazione fu di riforma, pieno della genialità del Neri ed allo stesso tempo contemporaneo a personalità di spirito, coevo e prosecutivo del Concilio[14], che si pose in contrapposizione alla riforma protestante – senza polemizzare con essa[15] – eliminando certamente gli inconvenienti più gravi e portando in primo piano le esigenze della pastorale.

È l’Oratorio il punto cruciale della riforma attuata da padre Filippo. Questo, non si presenta come una semplice istituzione del tutto nuova, ma come la proiezione efficace della personalità del Neri, la summa della sua spiritualità[16]. L’Oratorio in quanto “Casa” ovvero “luogo abitato dal padre con i suoi figli spirituali” è il punto culminante verso cui converge l’itinerario spirituale proposto da padre Filippo. È l’opera sbocciata dalle sue mani e di cui sarà geloso cultore; è ciò che gli sta più a cuore, la sua vera creatura, il luogo privilegiato dove padre Filippo voleva che i suoi camminassero, mantenendosi sempre in un clima familiare di piena libertà, di modo che l’avanzamento nelle virtù fosse una pia emulazione all’interno del gruppo, ma anche una forza capace di fermentare la massa della società.

Ovviamente non si vuole in questa sede affermare che il Neri sia stato talmente rappresentativo da incarnare da solo un periodo ricco di avvenimenti quali quelli del sedicesimo secolo, sebbene la storia della spiritualità debba molto a lui. Occorre notare, fra l’altro, che si cominciò ad indicare padre Filippo come riformatore, solo dopo la sua morte. Questo è un dato imprescindibile che non si può sottacere, c’è lo fornisce uno degli oratoriani della prima generazione, il padre Antonio Talpa[17], il quale afferma che si cominciò a parlare di un Filippo riformatore di Roma e della Chiesa allorquando si prese in considerazione quel vasto movimento – l’Oratorio – nato nella sua stanzetta ed alimentato attraverso la confessione sacramentale e tutte quelle azioni di pietà che permisero al padre di rinnovare la pratica spirituale in coloro che incontrava, ed in tal modo restituiva a Roma quella genialità di spirito che doveva aleggiare nella Chiesa primitiva.

In questo percorso che porterà padre Filippo ad essere considerato come il Riformatore di Roma, egli non cercò mai l’originalità – anzi farà di tutto per evitarla – e, benché molti abbiano intravisto nell’Oratorio qualcosa di alquanto originale, in realtà esso riflette quello che era il desiderio del padre: tornare all’origine di un cristianesimo vissuto sull’auge della predicazione apostolica. Il Vangelo che è alla base di tutto è per tutti, non si esaurisce in un’unica proposta, ma per essere vissuto fino in fondo necessita di tutti quei sentieri che conducono a Cristo, ma che sono propri della multiforme vivacità dello Spirito Santo riflessa in ogni uomo.

Così – a suo tempo – affermò autorevolmente Giovanni Paolo II: «Da padre Filippo ricorsero papi e cardinali, vescovi e sacerdoti, principi e politici, religiosi ed artisti; nel suo cuore di padre e di amico confidarono illustri persone, come lo storico Cesare Baronio il celebre Palestrina, San Carlo Borromeo, Sant’Ignazio di Loyola e il cardinale Federico Borromeo. Ma quella piccola e povera stanza del suo appartamento fu soprattutto meta di una moltitudine immensa di umili persone del popolo, di sofferenti, di diseredati, giovani che accorrevano per aver consiglio, perdono, pace, incoraggiamento, aiuto materiale e spirituale»[18].

Filippo, con lo sviluppo della personalità, volle la crescita libera delle attitudini individuali; solo quando era necessario moderare l’irrequietezza dei ragazzi diceva: “State buoni¼” lo diceva alla romana “statte boni…” e, abbassando la voce, quasi a sottolineare la conoscenza della loro fragilità aggiungeva “¼se potete”; pare volesse dire: “¼altrimenti non posso farci nulla”. Per inteso questa frase – che comunque è molto controversa in quanto probabilmente non fu mai pronunciata da padre Filippo, benché a lui attribuita – non può e non deve essere letta nel senso generalizzato e possibilista di un “fate quello che volete”. San Filippo non è uomo dedito ai compromessi, flessibile e tollerante. Eppure, quella frase, se colta nel giusto senso può divenire interpretativa della sua spiritualità in quanto sintetizza e porta in grembo tutta la forza educativa del Neri che era fortemente convinto che l’uomo si educa da solo con la fiducia in se stesso.

Lo “state buoni… se potete” ha a che fare con la libertà e non con il libertinaggio, una libertà responsabilmente vissuta e lontana dalle diverse forme di sregolatezze, che non liberano affatto ma rendono l’uomo schiavo delle proprie passioni. Pertanto se lo “state buoni” non ha nulla a che vedere con le diverse forme di buonismo che con la bontà hanno in comune solo una vaga assonanza fonetica, il “se potete” giammai può essere letto nell’ottica del possibilismo. Piuttosto la pedagogia di padre Filippo la si rintraccia in un’altra sua massima: “Non voglio altro da voi se non che state allegramente, senza peccato mortale[19]. Questo è il progetto pedagogico, educativo di padre Filippo che è un uomo allegro, capace di divertirsi e di divertire, che rifulge dall’artificio della buffoneria che “guasta lo spirito[20] e sceglie l’arguzia che fa progredire nelle virtù facendo crescere le persone che gli stavano vicine.

Ecco perché nell’istituto dell’Oratorio risuonano cristianamente felici quei motivi umanistici che risaltano in maniera più evidente se si confrontano con lo spirito rigoroso ed austero del clima che si respirava in quel periodo. È proprio il caso di affermare che Filippo Neri, forse perché cresciuto nella terra dell’antica Etruria e quindi erede dei più antichi valori umanistici, tiene nel massimo conto il rispetto della persona e della libertà e con la sua coscienza critica riesce ad incamminarsi per una via diversa, quasi antitetica, a quella seguita dalla riforma cattolica, ma che convergerà verso le stesse finalità.

Siamo giunti al cardine della nostra tematica, è ora necessario cogliere il palpito del cuore di padre Filippo, ovvero quella forza d’amore che ridondava nel suo petto. Lo faremo gradualmente immedesimandoci nel cammino di un uomo comune che, colto dalla lucentezza del volto del padre e affascinato dalla sua naturale simpatia, giunge attraverso il dialogo spirituale a restare “intrappolato” nella sua cameretta “sempre aperta” che è l’Oratorio. La storia della spiritualità insegna che ci sono santi la cui missione sta piuttosto nel separare l’uno dall’altro, il mondo e la verità – così affermò il Newman nella Missione di San Filippo – altri, invece, ricevono la missione di unirli insieme[21]. Questo è Filippo Neri, la testimonianza di Alessandro Alluminati[22] ci fa ben cogliere la dinamicità delle relazioni spirituali che instaurava: amorevolissimo con tutti, dolce nel conversare con grandi e piccoli, faceva proprie le sofferenze degli altri fino al punto che quando incontrava una persona afflitta questa se ne andava tutta consolata, umilissimo con tutti, provava molto dispiacere quando qualcuno lo lodava, rispettoso nel comandare non voleva che alcuno patisse per colpa sua.

È necessario ora provare a rivivere la Roma degli anni in cui padre Filippo vi giunse. L’abbiamo già descritta la Città Eterna e sappiamo che lui era giovanissimo quando arrivò; eppure anno dopo anno, si fa già notare. La profondità dello sguardo, l’amabilità dei tratti insieme alla serenità del viso, il modo di ascoltare, di parlare e di agire, attirerà tutti, persino i più lontani. Tutte queste componenti messe insieme nel palpito del suo cuore sono tali da farlo considerare l’angelico vagabondo di Dio.

Sono gli anni in cui vaga per la città attraversando le vie e le piazze di Roma, specie nel quartiere dei mercanti e dei banchieri fiorentini. Qui attua il suo apostolato verso tutte quelle persone che incontra cercando di farsi sempre tutto a tutti per attirare tutti a Dio. Incitando ad una vita cristiana sempre più autentica, riuscirà a migliorare i costumi della Città Eterna, aiutando spiritualmente il prossimo senza per questo dimenticare le esigenze materiali di chiunque incrociava la sua vita.

Si tratta di una costante della sua spiritualità che tanto impressionò l’animo di Goethe, il quale restò fortemente colpito dall’attività benefica compiuta, per proprio impulso e in modo autonomo, dal “suo” Filippo, che attuò per lungo tempo senza appartenere ad alcun ordine religioso o congregazione, anzi non essendo stato nemmeno consacrato sacerdote: «Il fatto ancor più significativo è che ciò avvenisse proprio all’epoca di Lutero e che anche nel cuore di Roma un uomo alacre, timorato di Dio, energico, operoso, si preoccupasse di congiungere la santità, con le cose del mondo, d’introdurre il senso del divino nella vita secolare, così da gettare egli pure le basi di una riforma; poiché questa soltanto è la chiave capace di schiudere le prigioni del papato e di ridare al mondo libero il suo Dio»[23].

La riflessione è pertanto abbastanza ovvia, Filippo che ha orientato tutta la sua esistenza in Cristo, quello stesso Cristo crocifisso che ancora laico lo rapiva in pianto, come anche quello stesso Cristo che da sacerdote celebrerà nell’eucarestia ed adorerà in una prolungata preghiera, è il Cristo che egli vede riflesso nel volto dei pellegrini, dei convalescenti, dei malati, dei carcerati, delle ragazze povere, delle famiglie afflitte, delle vedove, e di chiunque aveva bisognoso.

Non pensava certo di diventare prete, lo farà in obbedienza al padre spirituale, e noi quest’oggi lo vogliamo incontrare ormai anziano, in quelle stesse strade e provare a rintracciare il volto luminoso di questo “vecchio bello e pulito, tutto bianco che sembra un armellino”; sono queste le parole con le quali lo descrive al fratello Matteo un giovane, oggi beato oratoriano, Giovanni Giovenale Ancina[24].

Ovviamente da qui, il passaggio all’interpretazione spirituale dei lineamenti del corpo è immediata: “le sue carni sono gentili e verginali e, se alzando la mano, capita che la contrapponga al sole, si illumina come un alabastro”. In tal modo si evidenzia una “verginità spirituale”[25] che a sua volta si manifesta integra nel dire e nel fare di Pippo Buono, rivelando quella sapienza che diede fondamento alla sua perenne giovinezza spirituale. Sarà forse per questo motivo che la vasta panoramica della sua iconografia c’è lo raffigura per lo più anziano; quasi a voler considerare una fanciullezza che, cresciuta sino alla vecchiaia, è rimasta intatta, corrispondendo a pieno a quell’esigenza evangelica che mira a …far diventare come i bambini[26].

Una simile raffigurazione ci rivela i tratti salienti della sua personalità e della sua spiritualità e ci presenta l’icona di colui che, avendo raggiunto la maturità dei suoi anni, è anche giunto a quella della sua santità. Ora sebbene noi tutti c’è lo raffiguriamo anziano, dobbiamo di fatto considerare che padre Filippo non nacque vecchio, ma dapprima fu giovane, ed il Bacci precisa “un giovane di bellissime forme”[27]. Così dicendo siamo certi che non allude solo al suo aspetto fisico – verosimilmente non lo conobbe – ma, intende richiamare il fascino della simpatia che caratterizzò il suo tratto umano e spirituale in ogni stagione della sua vita.

Dato che per simpatia non si intende quella corrispondenza di sentimento che si instaura in un gruppo di persone, ma la capacità di provocare gradimento, è certo che padre Filippo provò sempre interesse appassionato per i suoi figli spirituali attirandoli così come la calamita il ferro[28], partecipando di tutto ciò che li riguardava. Sarà pure per questa sua dote che sin da subito è stato riconosciuto come vero Socrate cristiano non tanto per lo stile orale dell’insegnamento che lo accomuna con il filosofo, ma per il metodo usato da entrambi. Socrate con la sua ironia, evitando i lunghi discorsi, portava l’interlocutore a dubitare di ciò che prima riteneva certo, lo gettava nell’inquietudine inducendolo ad autoesaminarsi e a riconoscere i propri limiti. Parimenti, i detti di padre Filippo rivelano una particolare libertà di parola, che inducono ad un’intelligente e provocante ironia tanto da permettergli di comunicare direttamente da cuore a cuore. È questa la forza del dialogo spirituale che si sviluppava all’Oratorio; non più dunque “Socrate”, giammai “filosofo”, ma sempre e solo “padre”, era questo l’appellativo che più gli garbava, poiché questo era il più confacente al suo spirito: “…suonava amore[29].

In un periodo in cui si sviluppa l’arte oratoria, rinascono gli studi di eloquenza e di retorica, dando rinnovata centralità alla parola che, muovendo dalla fredda logicità della mente, giunge solo nella mente degli ascoltatori senza coinvolgerne il cuore. Filippo, invece, propose un’eloquenza del cuore, ovvero un dialogo capace di annullare la distanza tra docente e discente: la sua parola procedendo dal cuore giungeva al cuore del fedele. Dirà amabilmente il Tarrugi: «Parola uscita da bocca giunge sino all’orecchio, parola uscita dal cuore non si ferma fin quando non giunge in un altro cuore»[30]. In tal modo si sottolinea come il “parlare al cuore” sia la norma distintiva dell’Oratorio e si rivela il metodo del Neri che non porge una parola “infuocata” ma semplicemente “sussurrata” e proprio per questo efficace ed incisiva[31].

Tale dato che non può essere trascurato, riflette un ulteriore aspetto di quella forza riformatrice che caratterizzò la spiritualità del Neri il quale cambia e riforma la società dalla parte più intima che è il cuore; è questo lo stile differente di padre Filippo che non usò mai parole infuocate, ma infuocava i cuori dei suoi figli spirituali.

Ciò risalta maggiormente se confrontato con la carica tuonante di fra Girolamo Savonarola, che non conobbe personalmente ma di cui, in famiglia ed al “San Marco” di Firenze, respirò il ricordo, venerò la vita santa, stimò gli intenti apostolici, apprese la forza riformatrice, ma non fece propria la sua metodologia che è concretamente l’antitesi del metodo savonaroliano. Padre Filippo al pulpito rovente del frate domenicano sostituì la sedia dell’Oratorio e lo sgabello del confessionale; in questi due ambiti prenderà forma il dialogo spirituale tipico dell’Oratorio, ma con i connotati di una parola sussurrata capace di guardare all’uomo nella sua interezza per coglierne l’interiorità. Ciò è particolarmente evidente già nel suo modo di dialogare con coloro che incontrava per le piazze: «Be’ fratelli quando vogliamo cominciare a fare il bene?»[32]. Un modo di comunicare, questo, che non sfocia mai nel rigore o peggio ancora nel terrore, ma un modo sempre dolce e cordiale. Come confessore – ad esempio – sapeva di essere giudice, maestro e medico delle anime ma su tutto prediligeva sentirsi padre e mostrarsi padre[33]; così, ai confessori, insegnava ad essere affabili con i propri penitenti trattandoli con dolcezza, senza alcun rigore e seminando nel loro cuore un po’ di spirito d’amor di Dio[34].

Questo è Filippo Neri un uomo di grande pazienza per la sua capacità di sopportare le tribolazioni o le infermità, al punto che in quei momenti sembrava non aver alcun male[35], uomo di gran prudenza[36], di gran discrezione[37], di grande carità[38], di grande orazione[39], compassionevole e parsimonioso[40] sempre attento nel prendersi cura di coloro che si trovano nel bisogno. Queste virtù costituiscano le diverse sfaccettature della fisionomia spirituale di Filippo Neri dalla cui paternità scaturì l’opera di riforma spirituale di cui oggi trattiamo.

In merito all’ampiezza della paternità di padre Filippo occorre considerare sia il numero[41] che il variegato ventaglio di persone che rientreranno nel gruppo dei suoi figli spirituali. Domenico Migliaccio[42] attestando che padre Filippo trattava con le persone d’ogni stato: grandi, piccoli, giovani, cardinali, prelati, artigiani, vecchi, bambini ci rivela l’impressionante quantità di figli spirituali oltre che la diversificata schiera dei volti, ma soprattutto l’intelligenza dell’amore che permetterà al padre di accompagnare ciascuno secondo la propria personalità e secondo il proprio stato, ma anche quell’arguzia nel proporre a tutti un cammino d’insieme che è l’Oratorio.

Cercheremo ora di cogliere l’acume intellettivo di quest’uomo la cui esistenza era pervasa da un amore e da una bontà superiori alla sua naturale amabilità. Padre Filippo, come un buon padre di famiglia, tutto ciò che ha lo dona ai suoi figli preoccupandosi pure di farlo nel migliore dei modi. In quell’epoca di crisi dove neppure il percorso di fede era del tutto scontato, Filippo, visse un amore così speciale da renderlo in grado di proporre la fede in un Dio d’amore che libera dall’angoscia e sprona al bene[43]. Ecco com’è descritto, da uno dei testimoni, questo Filippo innamorato di Dio: «Fu di così fervente carità verso Dio che stava spiritualmente unito a lui, se di proposito non si distraeva non poteva conversare, né celebrare, perché all’improvviso scoppiava in pianto. Fui presente a molte sue celebrazioni, nelle quali era così grande la quantità delle lacrime che non poteva pronunciare parola e doveva fermarsi per molto tempo; lo stesso accadeva quando parlava all’Oratorio dell’amore di Dio, si scioglieva in lacrime tanto da non poter continuare»[44].

L’amore di Dio in Filippo fu dunque un amore sempre in crescita, come una forza che gli si addentrò dall’esterno a tal punto da divenire fisicamente quasi insopportabile. Una forza che aveva invaso completamente il suo cuore; per questo era solito dire che le persone veramente spirituali quando percepiscono di essere raggiunte dall’amore di Dio, non possono dormire la notte, ma la passano in orazione, lacrime, sospiri e afflati amorosi tanto da dover dire al Signore: “Lasciatemi dormire un poco”[45], sembra proprio che si riferisse a se stesso!

Tutta la sua esistenza fu pervasa da questo grande amore, chiunque poteva scorgerlo, anche quando volutamente egli cercasse di occultarlo; desiderava amare Dio in un modo sempre crescente e senza alcuna soddisfazione sensibile[46]. Giungeva così a tale stato di grazia spirituale da poter affermare che la maggior pena di un’anima che riesce ad astenersi dai peccati veniali è quella di esser trattenuta in questo mondo e non potersi unire con Dio[47]. Anche in questo caso seppur alludendo a terze persone, di fatto condivideva la sua esperienza.

Quello delle lacrime è un aspetto poco approfondito della vita del Neri, ma che rivela un maggiore ed intenso abbandono in Dio ed una tensione ad assimilare il Cristo in un autentico processo di cristificazione. Era profondamente convinto che «Chi vuol altro che non sia Cristo, non sa quel che vuole; chi domanda altro che non sia Cristo, non sa quel che domanda; chi opera e non per Cristo, non sa quel che fa»[48].

Si tratta di un grande amore testimoniato dallo straripante fervore sino alle lacrime, ma anche dall’esuberante gioia spirituale che ne veniva fuori. Sarà per questa duplice caratteristica che Von Balthasar[49] inserisce padre Filippo tra quelle figure di santi che si sono messi sulle tracce di Gesù disprezzato, insultato, reputato matto ed ossesso al punto tale da non aver più credito neppure fra la cerchia della parentela,. Così facendo spasimando di passare per matto in suo nome, Filippo Neri è divenuto all’interno della Chiesa un autentico “folle di Cristo” riuscendo a nascondere la propria santità e ad imitare il Cristo sofferente. Ecco perché il teologo tedesco qualifica padre Filippo come uno “al limite ed oltre il limite” quasi si trattasse di un illustre trasgressore di frontiere, non solo spirituali, ma del vivere quotidiano. Egli, infatti, con le sue burle, non solo cerca di distogliere la devozione dei fedeli da se stesso, ma con questi modi o gesta eccessive giungeva per altra via alla vera Sapienza; compiendo quel tentativo di imitazione del Cristo considerato matto[50] e nella fedeltà a quel Dio che ha scelto ciò che nel mondo è stolto per confondere i sapienti[51].

La fiamma d’amore che ardeva nel petto di padre Filippo non solo infiammò il suo cuore, ma come è facile immaginare, si espanderà nei cuori e nelle menti di coloro che incontrava provocando un incendio di vita cristiana. Non stimava bene alcuno, se non quello di donarsi sempre più a beneficio del prossimo. In tale contesto, il “cuore”, gioca un ruolo di primaria importanza sia perché esso è per antonomasia considerato la sede dell’amore, ma ancor di più per quell’evento mistico che caratterizzerà l’intera vita del Neri rendendolo capace di leggere nei cuori degli altri anche ciò che a loro volta essi non vi sanno leggere e di conseguenza permettendo, ai propri figli spirituali, di scoprire dentro di sé Colui che è più grande del loro cuore.

Per questo Filippo, quale vero maestro, segue personalmente la crescita dei suoi figli, non lo fa in modo intimistico, ma guarda a tutta la persona valorizzando in modo moderno la loro coscienza e la loro libertà. Era convinto che la persona cresce nella propria umanità soltanto quando incontra una testimonianza più grande di se stessa, una paternità, una presenza straordinaria che le indichi il cammino di crescita, i crocevia della propria libertà, le esigenze della responsabilità, senza restare irretita nei propri limiti e nelle proprie passioni[52].

Un indizio questo che ci conduce a scoprire quella chiara convinzione che ben presto si dovette radicare nel cuore di Filippo: lo Spirito Santo, ovvero quella fonte di calore che egli possedeva nel petto non doveva solamente esercitare la sua virtù ma doveva prodigarsi al di fuori di lui. Dal palpito del suo cuore, infatti scaturiva una sensazione di pace che si riverbererà nel cuore di ogni figlio spirituale. Ecco, ad esempio, come l’atto di stringere al suo petto la testa di uno dei suoi gli procura dei moti del cuore[53]; benché in molti godranno di questo gesto[54] restano comunque diversificati gli ambiti nei quali il padre porterà sollievo con il suo cuore. Alcuni saranno sollevati dai mali fisici, altri beneficeranno di una speciale consolazione spirituale. Fabrizio Massimo, ad esempio, testimonia che ogni volta che era attanagliato da sofferenze spirituali, Filippo lo abbracciava, e accostava la sua testa al suo petto, dal lato del cuore; allo stesso modo – continua il teste – faceva con altri e tutti sentivano il suo cuore balzare e sussultare nel petto a tal punto che sembrava volesse uscire fuori[55]. Un gesto questo che egli adoperava per accompagnare l’assoluzione sacramentale, per diradare le nebbie degli scrupoli[56] e dissipare le preoccupazioni delle tentazioni[57], liberando da ogni sofferenza spirituale[58], specie quando non riuscivano o non volevano rivelargli il loro stato d’animo, sia esso infestato da scrupoli, tentazioni o semplici affanni[59].

Tutt’altro che “arte miracolosa”, si tratta di una speciale presenza dello Spirito che lo rende capace di leggere nei cuori. Non è solo frutto di un’intuizione, magari geniale scaturita dal contatto con il viso[60] di chi lo incontrava – così come egli affermava per umiltà[61] – ma un vero e proprio spirito profetico con il quale attirava a sé i cuori degli uomini[62] per guidarli sulla via della perfezione evangelica attraversando sentieri nuovi e confacenti all’indole propria di colui che aveva di fronte.

Intuiamo come la vicenda della palpitazione del cuore di Filippo sia un evento simbolico della sua vita. Lo capì a suo tempo, in modo chiaro, Giuseppe Crispino[63] allorquando nel 1678 la descrive come una vera stigmatizzazione dello Spirito Santo: se foste talmente curiosi da risalire a quel vulcano di amore che ardeva nel petto di san Filippo, basti riflettere pensando per un attimo come questi desiderava spargere il proprio sangue per la testimonianza della fede, e dato che ciò non gli fu concesso, quell’amore fu tale che gli dilatò miracolosamente il cuore. Ora se sant’Agostino ebbe quelle stesse stigmate che ha avuto san Francesco d’Assisi, con la differenza che quest’ultimo le ebbe esteriormente mentre il primo le ebbe nel cuore, parimenti – continua il Crispino – posso chiamare stimmatizzato il cuore del mio Filippo.

Questa affermazione per quanto antica è particolarmente interessante perché pone un punto nodale nella vita di Filippo Neri da cui è possibile cogliere, nella rilettura agiografica della sua vita spirituale, un prima cioè la vita del pellegrino e dell’eremita ed un dopo ovvero la maturità di un uomo che si esprimerà sempre più con la forza generativa del suo amore.

Ora benché Filippo cercava di occultare gli eventi che abbiamo descritto, anche se da anziano vi riusciva sempre meno[64], tutti i suoi figli spirituali conoscevano bene la forza, il palpito ed il calore di tanto amore che gli ardeva in petto, nessuno o solo pochi, e per giunta alla fine della sua lunga vita, sapranno l’origine di tanto amore che scaturiva dal suo cuore. Era quel segreto solo suo, che egli chiamava “infermità sua” e che costituirà la sua pentecoste. Ci troviamo in quel particolare momento della vita di un giovane Filippo che, avendo abbandonato gli studi metteva in secondo piano tutto ciò che ostacolava il suo incontro con Dio. La sua giornata è divisa tra servizio ai fratelli e preghiera[65]: se le ore del giorno erano per gli uomini, quelle del silenzio e dell’ombra erano assorte in una preghiera che diviene sempre più intensa in un continuo peregrinare fra le basiliche romane, le catacombe e i ruderi che parlavano della cristianità delle origini.

In questo scenario – l’estatico vagabondo di Dio “fermamente come san Benedetto”, ma ancor più eroicamente perché andava a vivere il suo eremo tra le tentazioni della folla; “tutto serafico in amore come san Francesco”, ma più silenzioso e dimesso, meno plateale nel momento della scelta[66] – aveva fissato la sua dimora nella Città Eterna e lì vive come un pellegrino. Questa categoria bene esprime l’itinerario spirituale di Pippo Buono che, si ritenne pellegrino sempre sopra la terra[67], lo constatiamo a partire dalle scelte che si troverà a compiere nell’arco della sua esistenza. Nella varietà del loro susseguirsi, esse, contribuirono allo sviluppo della sua formazione spirituale ed umana. Si trattò dapprima di lasciare la sua terra, in seguito un più agevole avvenire per andare verso quella città che lo affascinava: la terra dei martiri, la sede di Pietro; fino alla scelta di divenire prete, maturata in anni di vita quasi eremitici, laico fra i laici.

Proprio lì sull’Appia Antica, alle catacombe di san Sebastiano, dove Filippo si sentiva in comunione con la presenza degli apostoli e degli antichi martiri vivrà la sua pentecoste. Questa per la violenza e l’immediatezza del moto del cuore, costituirà un segno esterno di quella incommensurabile carità che aveva contraddistinto la sua vita fino a quel momento.

È la notte di pentecoste del 1544, Filippo ha 29 anni, da quel giorno vivrà con alcune costole incrinate ed uno strano rigonfiamento al torace. Secondo la testimonianza dei medici di quel tempo il cuore di Filippo era molto più grande del cuore che pulsa nel torace di un uomo comune[68]. Antonio Gallonio testimoniò che durante l’ultima malattia di Filippo egli stesso avesse detto ai presenti che quella palpitazione che aveva e che chiamava “infermità sua”, la portava con sé da cinquant’anni e, commenta lo stesso Gallonio, che era proprio essa che lo faceva esultare in Dio con tutto il cuore e con tutto il corpo; era talmente grande la fiamma che gli ardeva in petto che al gonfiore del cuore seguì un inevitabile inarcamento di alcune costole, il che non gli procurava ne dolore ne fastidio, se non quell’eccessivo calore cosicché anche negli inverni dalle temperature più rigide era necessario aprire le finestre della stanza e sventolare le lenzuola per raffreddare il letto[69].

Su questo “gran fuoco dell’amore di Dio che egli aveva nel petto”[70] il cardinale Federico Borromeo riferirà che era il frutto di una intensa preghiera fatta dal Neri per richiedere i doni dello Spirito[71] durante i primi anni della sua vita romana, essa non gli procurava alcuna sofferenza, lo stesso Filippo dichiarava di poter alleviare il dolore quando voleva, come quella volta che sentendosi morire esclamò “Signore, io non lo posso sopportare” e da quell’ora, l’irruenza dello Spirito si andò mitigando[72].

A partire da tale dato riflettiamo come a differenza di tanti altri mistici, Filippo non soffrì mai di quelle aridità dovute all’assenza dello Spirito. La sua lotta non è contro l’oscurità del peccato che insidia il cuore e lo travia; il cuore di padre Filippo, invece, traboccante di grazia, quasi “oppresso” dall’ebbrezza dello Spirito è purificato da tale eccesso di amore[73]. In lui troviamo quell’ordinario gemito di chi desiderando il completo possesso di Dio, che può avvenire solo in Cielo, per ora si trova a goderne quaggiù così come ne è umanamente possibile. Pertanto possiamo attestare che, quasi paradossalmente, negli oltre cinquant’anni che vanno dall’esperienza mistica nelle catacombe di san Sebastiano fino alla sua morte, è Filippo a fuggire lo Spirito in mille distrazioni che non questi ad abbandonarlo. Un tale vissuto spirituale, che potremmo definire solare in quanto privo dell’oscurità della notte, diviene uno sprone a non desistere nel momento della prova. A tal proposito Filippo – convinto che Dio non fugge ma finge[74] – non era affatto preoccupato dall’assenza di Dio, ma dall’indifferenza dell’uomo nei confronti di Dio e su ciò metterà in guardia i suoi[75]. Per questo insegnava ad essere preparati per l’ora della tentazione e ad accoglierla senza lamenti[76], ma immaginando se stessi come mendicanti alla presenza di Dio[77].

A partire da queste dinamiche dello Spirito che riflettono il vissuto spirituale di Filippo Neri, possiamo cogliere quelle altre dinamiche che, se ben armonizzate nel palpito del suo cuore, contribuirono a corroborare il vissuto di quegli uomini e quelle donne che entreranno in contatto con lui. Si tratta di quei nuovi percorsi umani che diedero alla Chiesa di quel tempo una ventata di aria pura, un nuovo respiro capace di portare a compimento l’opera di riforma, che – vale sempre la pena ricordare – seguirà vie diverse, ma non per questo meno efficaci perché maturate in quel dialogo da cuore a cuore, tra Filippo e i suoi.

Le componenti che andremo a prendere in esame sono: l’orazione che nutre lo Spirito; la gioia, quale frutto e segno della presenza dello Spirito; la ragione sul banco di prova dell’umiltà, il fascino della libertà colta come obbedienza nello Spirito ed ovviamente l’Oratorio quale simbolo eloquente della spiritualità del Neri.

Quello dell’orazione è indubbiamente un ambito vitale dell’esistenza di Filippo, tutta la sua vita fu una continua orazione[78], cominciò da ragazzino a sermoneggiare e continuò per tutta la vita con una crescente intensità. Da giovane lasciò gli studi proprio per dedicarsi alla preghiera di cui mai si saziava. In tal modo, più con l’esem-pio vissuto che con le parole, si manifesta autentico maestro di vita spirituale[79]. Il suo modo di intendere la preghiera non è qualcosa a se stante, staccata dal lavoro e dalle altre attività, egli fonde la preghiera con la vita e così in essa risuonano tutte quelle componenti che rientrano nel vissuto di ogni uomo e cioè: l’amore, la gioia, l’ascesi, la musica e la ricreazione[80]. Allo stesso modo, nell’ambiente dell’Oratorio la preghiera, il cui ritmo è particolarmente portante, non è “programmata” [81]. Come Dio è dappertutto altrettanto deve esserlo la preghiera, una preghiera del cuore che diventa vita. Vi sono i tempi forti di preghiera: per esempio gli uffici liturgici, ma essi, come i pilastri di un ponte, sostengono l’arcata di tutta una vita che a sua volta diviene una continua preghiera. In questo modo, Filippo Neri, quale testimone dell’incontro con Cristo, attua un vero e proprio cammino con Cristo ed elevando a dignità di preghiera tutte le attività quotidiane della vita ordinaria, riesce a dimostrare che ogni cristiano può condurre una vita d’imitazione di Cristo nel modo proprio. Se la preghiera è il luogo d’incontro tra Dio e l’uomo, essa si concretizza in svariate forme come svariati sono gli ambiti dell’incontro Dio-uomo.

Altro elemento che caratterizzerà la spiritualità oratoriana è quello della gioia. Non pensiamo affatto al carattere gioviale del Neri in quanto la gioia cristiana è dono dello Spirito Santo e suo consequenziale frutto maturo. A tal proposito la burla, usata dal padre, non era fine a se stessa ma piuttosto un modo per far riflettere[82].

Alla luce di ciò è comunque necessaria una chiarificazione di termini: la gioia di cui è permeato il vissuto del Neri si pone in una dimensione opposta al quesito di francescana memoria sul dove si situasse la perfetta letizia. Se infatti quest’ultima risulta essere il segno del raggiungimento della perfezione in un cammino ascetico e, quindi, per ovvi motivi riservata a pochi, la gioia per Filippo è alla portata di tutti e consiste nella riscoperta dell’amore di Dio per ciascuno. Questo è lo stile di padre Filippo che infiammato dallo Spirito Santo propone un cammino ascetico lontano dai rigorismi e dai difficili percorsi basati sulle mortificazioni corporali. Lo stile di Filippo che si differenzierà dai modelli a lui contemporanei è meno inquietante e più “umano” a tal punto che chi lo incontrava, talvolta, dapprima ne resta scandalizzato, ma poi, pian piano, veniva afferrato e contagiato dal suo modo di fare gioviale e adatto a tutti, specie a coloro che – per vocazione – vivevano nel mondo[83].

La vita secondo lo Spirito, benché impegnativa, deve rendere felici per il solo fatto che essa coinvolge tutto l’uomo, per tale motivo padre Filippo incitava i suoi a non essere malinconici; l’esperienza gli aveva insegnato che è più facile accompagnare nella vita spirituale una persona allegra che una malinconica, per questo motivo andava ripetendo che la gioia cristiana rende più facile la vita secondo lo Spirito.

In definitiva Filippo Neri, che seppe vivere del soprannaturale in modo naturale, era fortemente convinto che l’unico regista della gioia era lo Spirito Santo che “è il maestro dell’orazione e ci fa stare in continua pace ed allegrezza di Spirito che è un pregusto di paradiso”[84]. Apprendiamo da Marco Antonio Maffa che le stanze di padre Filippo sono scuola di santità e di gioia cristiana[85]. Tale affermazione assume un forte valore simbolico in quanto non si riferisce alle nude mura, ma al luogo dove il padre incontra i suoi figli e quindi il luogo da cui avrà origine l’Oratorio.

Per padre Filippo, la vita secondo lo Spirito è prerogativa di ogni cristiano, essa corroborata dalla gioia e nutrita dalla preghiera la si raggiunge con l’umiltà, che situandosi alla base di ogni scuola di ascetica sta anche a fondamento dell’Oratorio. L’umiltà, che significa farsi piccoli per meglio ascoltare la voce dello Spirito, si caratterizza per quel controllo di se stessi per il Regno dei cieli, mettendo così la propria mente a servizio della volontà divina, fino all’annullamento di se stessi per rinascere in Cristo uomo nuovo. L’innovazione apportata da padre Filippo sta proprio nel modo in cui raggiungeva tale obbiettivo egli, dando particolare rilievo alle cosiddette mortificazioni dello spirito, superava le allora abbondanti mortificazioni corporali. A chi si ostinava nel volerle praticare faceva comprendere che a nulla servono se il cuore è lontano da Dio, viceversa nulla possono aggiungere a colui che è già innamorato di Dio[86]. Non è l’affannosa ricerca degli atti di penitenza a far crescere spiritualmente l’uomo, ma la paziente accettazione delle prove della vita[87].

Se ci soffermiamo a riflettere sulla tradizione ascetica di quegli anni[88], notiamo che essa, per lo più, prende in considerazione quegli esercizi tesi a controllare la parte concupiscibile dell’anima, prediligendo ciò che mirava a far raggiungere uno stato angelico mediante il trascendimento della corporeità in una sempre più crescente ricerca di immaterialità attraverso severe penitenze corporali. Questo modo di fare creava un tipo di uomo emaciato, astratto dal mondo circostante, alieno dalla vita.

Nella mente di padre Filippo l’umiltà è ben altra cosa; essa è innanzitutto la risposta che l’uomo dà a Dio dopo aver fatto esperienza del suo grande amore; per questo il padre raccomanderà ai suoi figli spirituali «Che sopratutto fossero umili»[89]. L’umiltà, non ha dunque altro senso se non quello di far distaccare l’uomo dall’eccessivo attaccamento a se stesso per un letterale “darsi in consegna a Dio”. Alla luce di tutto ciò, padre Filippo sottolineava con forza l’importanza del “mortificare il razionale”, mentre si toccava la fronte affermava “La santità sta in tre dita di spazio”[90]. Badiamo bene che non si tratta di mortificare la ragione, in quanto il razionale[91] che padre Filippo vuole sia mortificato è l’eccessivo discorso, un conto è la ragione un altro, ben diverso, è il razionale.

Non vi sono vie privilegiate, ogni battezzato ha come via la propria vocazione; si tratta dell’eroismo del quotidiano che Filippo propose a tutti. Una via allo stesso tempo semplice, ma anche impegnativa, essa, non richiede particolare ascesi ma deve durare tutta la vita. Non importa se si vive in campagna o in città, in curia o in convento, tutti i figli spirituali di Filippo verranno inseriti in quel percorso spirituale che li sospingerà ad attuare costantemente il disegno divino che il Creatore ha riservato per ciascuno di essi[92]. Essere umili, non significa rinunciare alla vita, alla famiglia, alle cose di quaggiù[93], agli affari[94] o peggio ancora ricoprirsi del cilicio[95], prodigarsi in digiuni[96] ed altre forme di penitenze corporali. Tutt’altro, nella sua officina del buon umore, Filippo raddrizza e dà forma alla materia grezza dell’umano e tutto ciò lo fa scherzando, stornellando, secondo un avverbio che ripeteva spesso e insegnava a tutti: “allegramente, allegramente”[97].

Fin qui ho provato a tratteggiare la spiritualità del Neri, dalla quale è emersa quella capacità di relazione con coloro che incontra permettendo a ciascuno di esprimere la propria originalità, compiacendosi tanto della diversità quanto del-l’unità. Ora è mio desiderio cogliere un ulteriore elemento che caratterizza la sua fisionomia spirituale e che più di tutti stride nel panorama del sedicesimo secolo. Si tratta di quella libertà di cui Filippo era innamorato e verso la quale indirizzò i suoi figli spirituali e che potremmo pure chiamare obbedienza allo Spirito.

Tanto famosa la libertà di Filippo Neri, quanto facilmente rintracciabile nel vissuto del padre, rientra nell’ambito dell’autentica libertà dei figli di Dio ed è prerogativa della persona matura e responsabile. Padre Filippo, uomo libero che educa alla libertà, esclude la sottomissione servile incapace di scelte autonome e favorisce lo sviluppo di una coscienza retta, si forma nel confronto quotidiano con la Parola di Dio e nel dialogo comunitario illuminandosi e correggendosi fraternamente. Non si deve confondere con l’anarchia ed il capriccio egocentrico tipico nell’adolescente o con la difesa dei propri interessi tipico nell’uomo vecchio[98].

Legittimata dallo stesso Cristo che, obbediente fino alla morte in croce ha garantito agli uomini quella libertà propria dei figli di Dio[99], ne segue che per Filippo l’obbedienza allo Spirito è innanzitutto obbedienza alla rivelazione; che per l’uomo significa fare in modo che la fiducia in Dio vinca contro la disperazione verso se stessi[100]. Affermare ciò, non significa cedere ad una visione della grazia a buon mercato, padre Filippo, sempre docile all’azione dello spirito, non minimizza il male ma lo considera nella giusta misura. Per quanto esso rimanga una realtà orribile resta comunque impotente dinanzi all’amore di Dio.

Una libertà, quella filippina, che fondandosi sul dono di sé, nel suo senso più ampio è costituita dalla sincera diffidenza di Filippo verso tutto ciò che sa di legge o che in un modo o nell’altro limiti la libertà delle persone. Badiamo bene che non si tratta di una libertà concepita nell’ottica politica, il tutto è da intendere sempre e solo sotto la direzione unica dello Spirito che deve poter agire nel cuore dell’uomo senza quegli ostacoli tipici dell’autoreferenzialità.

Considerare la libertà quale prerogativa dello Spirito non significa sganciare la vita dell’uomo dalle regole che comunque vi devono essere, ma verosimilmente scioglierla da tutte quelle paure che mortificano il volto di Dio impresso nell’uomo. Da essa scaturisce quell’ulteriore elemento peculiare della spiritualità cristiana, tanto da essere annoverato tra i consigli evangelici: l’ubbidienza. Nella mente di Filippo, l’obbedire non sarà mai un’adesione acritica ad un comando esterno, egli stesso darà ragione dell’essere “obbedito prontamente” nel fatto che “comandava poco”[101]. Fortemente legata all’umiltà l’obbedienza diviene strumento di crescita spirituale capace di liberare l’io personale dall’inganno tipico di ogni forma idolatrica.

Questa conversazione resterebbe monca senza un riferimento all’Oratorio inizialmente voluto da padre Filippo per occupare i suoi figli spirituali nei pericolosi ozi pomeridiani, e che diverrà la Casa, e quindi l’ambiente vitale nel quale il padre guida e forgia il loro spirito. In quanto Casa, già nella sua primissima accezione di edificio, l’Oratorio deve essere considerato nella sua materialità come luogo concreto in cui si raduna la famiglia e quindi il luogo destinato, per natura, ad ospitare la comunione. Del resto non può esistere alcun rapporto padre-figlio senza una Casa, si pensi ad un padre Filippo seduto sul suo letto e dedito a “ragionare” con alcuni giovani incontrati la mattina al confessionale[102]. Per di più, se l’Oratorio nasce da questi incontri, scopriamo che non è solamente edificio, realtà materiale, ma anche simbolo di quella reciprocità di dono che intercorre nella relazione padre-figlio.

Questa è la via oratorii che, condensando gli elementi più caratteristici della spiritualità di padre Filippo, portò lentamente ma efficacemente a cambiare il volto della Città Eterna. Essa si caratterizza per un impegno assiduo di un sempre più sincero sentire cristiano, nella preghiera, nella pratica sacramentale e nella testimonianza evangelica[103]. Pertanto, regolato dalla preghiera in comune, dalle pratiche quotidiane, dalle opere di misericordia corporali e spirituali, costituisce un gruppo che ispirandosi alla primitiva comunità gerosolimitana ricrea una Chiesa domestica dove ognuno svolge la sua parte mediante i carismi che Dio ha donato.

Momento cardine sul quale ora soffermiamo la nostra attenzione sono gli incontri dell’Oratorio, cuore pulsante del ritrovarsi insieme di Filippo con i suoi. Fin dalla prima stagione tali incontri si distinsero per la conversazione sulla Parola di Dio in modo semplice, in un clima familiare dove la peculiarità sta nel modo in cui essa veniva somministrata “quotidianamente e familiarmente trattata”. Come un pane quotidiano il libro delle Scritture nutriva, ogni giorno, coloro che vi prendevano parte. Il tutto senza sottigliezze e senza pensieri ricercati che sono lontani dallo spirito dell’Oratorio[104]. Più precisamente, l’oratoriano di turno, lungi dall’arrogarsi il compito d’insegnare era chiamato ad accendere l’affetto per le realtà spirituali[105].

Con la semplicità di stile e dal luogo del sermone, una sedia e non un pulpito[106], si riusciva ad instaurare tra padre e figli quei legami atti a farli divenire sempre più un cuor solo ed un’anima sola, ad imitazione della Chiesa apostolica. Questa dinamica che determina il ruolo della Sacra Scrittura all’interno dell’Oratorio e soprattutto il modo come padre Filippo armonizzerà il tutto ci fa ragionevolmente pensare che, proprio in quell’epoca in cui emergeva e dilagava in Europa il principio luterano della sola scriptura, quella dell’Oratorio fu la discriminante colta genialmente da padre Filippo come un segno dei tempi. Facendo in modo che esso venisse applicato in modo ecclesiale. Consegnando nelle mani dei suoi, il libro delle Scrittura, anticipava profeticamente di alcuni secoli i tempi di una pastorale portata avanti dal fattivo apostolato dei laici che partecipano attivamente alla missione della Chiesa.

Questi incontri che si incentravano sulla Parola di Dio, sempre con il loro carattere familiare, venivano correlati da i ragionamenti, la lettura della vita dei santi e della storia della chiesa, le preci e le laudi; cioè tutto quell’insieme di esercizi ed esperienze spirituali che, per il solo fatto di essere vissuti insieme, contribuiranno sicuramente al mutuo perfezionamento con un vicendevole incitamento a ben fare, a far meglio, alla fervorosa emulazione. Il connubio[107] della scelta agiografica e della storia ecclesiastica insieme al grappolo di pratiche devozionali fece sì che “il Libro” venisse concepito non come patrimonio riservato al godimento intellettuale personale o peggio come suggestivo invito al narcisistico compiacimento di sé, ma come mezzo di elevazione spirituale in quanto bisognava cercare di sapere, ma non mostrarlo né vantarsene[108]. I figli di padre Filippo, se nei primi tempi si limitano ad ascoltare all’Oratorio il padre che parla loro, ben presto si trasformeranno da uditori ad interlocutori e qui sta la validità di un metodo, come quello oratoriano, che in Spirito di verità e semplicità di cuore crea quelle condizione affinché lo Spirito Santo infonda le sue virtù per il bene spirituale di tutti[109].

L’Oratorio, che è dunque quel contesto in cui naturalmente si eleva la preghiera, intesa come incontro fra Dio e l’uomo, fa sì che questo genere di incontri con la Parola di Dio e la comunione dei fratelli, potenziati dalla vita sacramentale, debbano necessariamente indurre all’esercizio fedele della sacra liturgia ed al culto eucaristico che sono da sempre prerogativa oratoriana[110]. Del resto come i primi cristiani incontravano nella fractio panis Cristo presente ed operante così, Filippo Neri, aveva fatto dell’orazione la condizione essenziale affinché tutti possano crescere nella vita spirituale e da qui rivolgere un’attenzione verso i bisognosi. Una sorta di apostolato spicciolo, a servizio dei più piccoli, espressione di un modo nuovo di essere. Per questo all’Oratorio risuonano felici anche altre componenti: canti, laudi e inni spirituali[111]; unitamente agli incontri all’aperto che pur senza una regolare periodicità, saranno sempre occasione per un richiamo alla conversione, ma anche un anelito a ridare colorito a quella fede annebbiata dalle fatiche quotidiane[112].

A tal proposito mi sia concesso di soffermarmi un attimo sulla Visita alle Sette Chiese[113], una sorta di Oratorio all’aperto straordinario la cui origine ci conduce ai primi anni romani dello stesso Filippo[114] ma che, a sua volta, richiama una pratica legata alla sfera penitenziale e già presente nell’antichità della cristianità romana. Egli, che in quegli anni viveva da pellegrino “quasi fosse un eremita”, aveva inserito fra i suoi esercizi devoti una sorta di itinerario spirituale che lo conduceva in quei luoghi della fede dove si respirava la testimonianza degli apostoli e dei primi martiri.

Tutto ciò che era anticamente vissuto nell’ottica di un cammino penitenziale, ora padre Filippo lo sganciava dalle colpe personali e ne sottolineava la gioia per la riacquistata pace interiore[115]. Pertanto sia pure conservando una misurata compostezza, di fatto, la Visita alle Sette Chiese, perderà il tono grave e severo dei pellegrinaggi per vivere nel sereno svago il duplice carattere devozionale-ricreativo. Quando poi prenderà piede il carnevale romano, siamo intorno al 1552, egli che è già prete da un anno, trasformò quella sua pratica personale in un pellegrinaggio di popolo che si teneva inizialmente il giovedì grasso[116], anche se in seguito verrà ripetuto più volte l’anno. Voleva essere un espediente per allontanare i figli spirituali da quella nuova pericolosa manifestazione che minava alle fondamenta il suo insegnamento.

Ancora una volta padre Filippo rivela la sua forza riformatrice attraverso un apostolato “del divertimento” inteso come un diverso itinerario spirituale della mente e del cuore, ma convergente anch’esso in Dio, e capace di forgiare – in un ambiente strettamente laicale, anche se accoglieva gente consacrata – un cristianesimo gioioso dove la musica e la passeggiata servivano da prolungamento ai sermoni spirituali.

Concludendo questo mio intervento credo di poter evidenziare come padre Filippo sia stato un uomo che ha avuto una parola personale da dire nel nome di Dio a quanti incontrava, realizzando così quel dialogo già definito da cuore a cuore e gettando le basi di una thelogia cordis. Nella Roma del suo tempo “parlerà al cuore”, inculcando il desiderio di imparare lo stile di Dio, ed in tal modo riponeva nel cuore dell’uomo la nostalgia di Dio. Un invito a tornare a lui con tutto il cuore, così, nell’esperienza tipica degli esercizi dell’Oratorio è possibile cogliere quella “intelligenza dell’amore” che gli permetterà di ripetere l’invito a “mortificare il razionale”.

In definitiva è questa la sua riforma; è vero lui sognava le lontane terre di missione ma lì, alle Tre fontane[117], aveva compreso che le sue Indie sarebbero state Roma e nella Città Eterna consumò la sua esistenza convinto che chi fa del bene a Roma fa bene in tutto il mondo[118]. Per questo non si arrese alla nausea di un presente inesorabile ma, con il suo apostolato, cercò di incamminare con i dovuti modi il risveglio di Roma[119], da quel profondo letargo in cui era caduta, rendendo la vita secondo lo Spirito familiare a qualunque persona e condizione di vita[120]. Chioserà il Talpa che un simile percorso di riforma sarebbe potuto iniziare solo da Roma, e in Roma per mezzo della corte, e nella corte per mezzo del clero, e nel clero per mezzo dell’Oratorio[121], ovvero di quella scuola di virtù cristiane che non tanto con le parole, ma con l’esempio ha fatto intendere che la perfezione cristiana non è incompatibile con lo stato laicale.

La sintesi della sua azione la troviamo nella solarità con cui accompagnava gli uomini e le donne del suo tempo in tutti gli interstizi della vita secolare, senza farli scivolare in rivoli secondari e solitari. Volgendo lo sguardo verso Cristo, li innestava con vigore nella Chiesa cattolica, nella forza dei suoi sacramenti, nella bellezza di una proposta morale vissuta in modo gioviale. Qui si denota il suo essere stato un a-utentico discepolo di Cristo, e per questo la sua natura è profondamente ecclesiale e la sua paternità poggiò sulla forza di un’obbedienza perseverante a Colui da cui tutto procede e sul coraggio di mettere da parte se stessi per porsi all’ascolto dell’Altro.

L’aver fermato il nostro sguardo al XVI secolo ed alla prima generazione dell’O-ratorio, ci sprona a saper cogliere il segno dei tempi e così provare a rendere creativo il nostro carisma nell’oggi della storia; non resta che domandarsi se anche nel XXI secolo si possa riscoprire attraverso l’esempio di padre Filippo, la feconda bellezza del mistero della via oratorii e la sua forza riformante a favore dell’uomo di oggi. È compito degli Oratori e delle nostre Congregazioni dare testimonianza di tutto ciò.

In molte Case oratoriane è conservata ed all’occorrenza venerata la reliquia del cuore di san Filippo. Credo bisogna ritornare al palpito di quel cuore per renderne efficace l’opera di apostolato e la testimonianza a cui tutti siamo chiamati ognuno per il proprio ruolo. Il rischio potrebbe essere quello di fermarsi alla venerazione di tale preziosa reliquia, quasi un lustrarne l’urna dorata. Questo nostro tempo invece ci interpella personalmente e comunitariamente, spronandoci a far avvicendare i gesti mortiferi con opere vivificatrici, interpretando quella forza d’amore che scaturì dal cuore, sempre giovane, che palpitava nel corpo dell’ottuagenario Filippo Neri.

Mi piace concludere con le parole del Venerabile Giovanni Battista Arista che intendo fare mie, questi – in tempi e contesti diversi – ebbe a dire che noi filippini dovremmo trovar modo di incontrarci, riconoscerci, discutere insieme, con quella fiducia reciproca che nasce dalla convinzione che tutti amiamo la Congregazione e che con i nostri sacrifici possiamo dare risposte alle diverse problematiche[122].

Interpretando queste parole intendo dire grazie per l’invito che mi è stato rivolto, esperienze come queste creano comunione e rendono bello il nostro essere oratoriani. Se alle volte si percepiscono diversi motivi per affermare che l’Oratorio non sta bene, per lo meno in Italia ed in particolare nell’Italia meridionale dove, fatta salva qualche eccellenza, le Case boccheggiano; sono altrettanto convinto che esperienze come queste allarghino il cuore, ricreando nuove modalità di espressione nel crocevia dell’esperienza storica in cui effettivamente e senza riserve, ciascun oratoriano si muove. Il che significa restare con l’orecchio attento e con il cuore disponibile a quei nuovi percorsi che il carisma oratoriano potrebbe assumere per una sua adeguata attualizzazione.

Complimenti alla Federazione Messicana dell’Oratorio per l’iniziativa promossa che segna il valore di una formazione continua frutto della coesione fra le diverse Case. Grazie.

Il presente testo è stato pensato per una conversazione orale, pertanto risente della disparità esistente tra linguaggio parlato e scrittura; inoltre allo scopo di facilitare la traduzione simultanea si è preferito rielaborare e quindi interpretare con l’italiano corrente le citazioni dei testi antichi, i cui riferimenti, comunque, vengono di volta in volta riportati in nota.

[1] Cfr. G. Cassiani, «Il Socrate cristiano». Saggio su Filippo Neri, Pisa 2009, 7-17.

[2] Cfr. H. Brémond, Divertissements devant l’Arche, Paris 1930, 88, trad. di A. Cistellni, San Filippo Neri, l’Oratorio, 18.

[3] Cfr. A. Borromeo, Aspetti della riforma postridentina a Roma, 40 in San Filippo Neri nella realtà romana del XVI secolo, Roma 2000.

[4] Giovanni Paolo II, Lettera Pontificia ai membri della Confederazione dell’Oratorio, Città del Vaticano 1994, 3.

[5] Cfr. Storia della Chiesa, a cura di H. Jedin, Milano 1993, V/2, 228s.

[6] Cfr. ibid., 101.

[7] Cfr. ibid., 326s.

[8] Cfr. Riforma Cattolica, in Dizionario di Storia della Chiesa, Cinisello Balsamo 1992, 574.

[9] Cfr. Controriforma, in Dizionario di Storia della Chiesa, Cinisello Balsamo 1992, 211s.

[10] Cfr. Riforma Cattolica, in Dizionario di Storia della Chiesa, Cinisello Balsamo 1992, 574s.

[11] Cfr. Storia della Chiesa, a cura di H. Jedin, Milano 1993, VI, 588-598.

[12] Cfr. L. Von Pastor, Storia dei Papi dalla fine del Medio Evo, Roma 1925, IX, 127.

[13] Cfr. A. Cistellini, Filippo Neri giovane laico in Roma e prete in S. Girolamo della Carità, in In Aevum 35 (1970) 1-23: 8; cfr. F. W. Faber, The Spirit and Genius of St Philip Neri, London 1850.

[14] Cfr. Storia della Chiesa, cit., VI, 596.

[15] Cfr. P. Prodi, San Filippo Neri: un’anomalia nella Roma della Controriforma?” in Storia dell’arte, 85 (1985) 333-339.

[16] Cfr A. Cistellini, San Filippo Neri, l’Oratorio e la Congregazione oratoriana. Storia e spiritualità, Brescia 1989, I, 103.

[17] Cfr. A. Talpa, Instituto della Congregatione dell’Oratorio, a cura di G. Incisa della Rocchetta, in Oratorium 4 (1973) 3-41: 6.

[18] Giovanni Paolo II, Attualità del messaggio di Filippo Neri. Omelia del 26 maggio 1979 nella Chiesa Nuova, in L’Osservatore Romano, 27 maggio 1979, 6.

[19] Cfr. F. Neri, Gli scritti e le massime, 148.

[20] Cfr. F. Neri, Gli scritti e le massime, 166.

[21] Cfr. Itinerario Spirituale, n. 143.

[22] Cfr. Il primo processo per san Filippo Neri. Nel codice vaticano latino 3798 e in altri esemplari nell’archivio dell’Oratorio di Roma, a cura di G. Incisa della Rocchetta N. Vian, I-IV, Città del Vaticano 1957. [ d’ora in poi Processo], I, 142.

[23] J.W. Goethe, Viaggio in Italia, Milano 1993, 363.

[24] Cfr. A. Cistellini, San Filippo Neri, l’Oratorio e la Congregazione oratoriana. Storia e spiritualità, Brescia 1989, I, 234.

[25] Cfr. G. Papasogli, Filippo Neri, Cinisello Balsamo 1994, 203-206.

[26] Cfr Mt 18, 3.

[27] Cfr. P. G. Bacci, Vita di S. Filippo, Napoli 1855, 215.

[28] Cfr. Processo, II, 42.

[29] Cfr. Processo, IV, 105.

[30] Cfr. G. Marciano, Memorie Historiche, Napoli 1693-1702, II, 200.

[31] Cfr. A. Cistellini, San Filippo Neri. L’Oratorio e la Congregazione oratoriana. Storia e spiritualità, cit., I, 86.

[32] Processo, II, 105.

[33] Cfr. A. Capecelatro, La vita di San Filippo Neri, I, 257.

[34] Cfr. F. Neri, Gli scritti e le massime, 164s.

[35] Cfr. Processo, I, 239.

[36] Cfr. ibid.

[37] Cfr. ibid.

[38] Cfr. Processo, II, 158.

[39] Cfr. Processo, I, 239.

[40] Cfr. Processo, I, 268s.

[41] Cfr. Processo, III, 87.

[42] Cfr. ibid.

[43] Cfr H. Tercic, Filippo Neri. L’amore vince ogni paura, Roma 2000, 83.

[44] Processo, II, 85-86.

[45] Cfr. F. Neri, Gli scritti e le massime, 157.

[46] Cfr. Processo, IV, 70.

[47] Cfr. Processo, IV, 100.

[48] Cfr. F. Neri, Gli scritti e le massime, 157.

[49] Cfr H. U. von Balthasar, Gloria. Una estetica teologica, Milano 19912, V, 131-136.

[50] Cfr. Mc 3, 21.

[51] Cfr. 1 Cor 1, 27.

[52] Cfr. G. Carriquiry Lecour, El Oratorio en la mision de la Iglesia al alba del Tercer Milenio Relazione al Congresso Generale 2000 della Confederazione dell’Oratorio, in Memoria Congressus Generalis¸ pro-manuscripto, a cura della Procura Generale, Roma 2000, 12.

[53] Cfr. Processo, I, 303-304.

[54] Cfr. Processo, II, 158.

[55] Cfr. Processo, II, 333.

[56] Cfr. Processo, I, 237.

[57] Cfr. Processo, I, 273.

[58] Cfr. ibid.

[59] Cfr. Processo, II, 221.

[60] Cfr. Processo, II, 176; ibid., I, 179.

[61] Cfr. Processo, I, 117.

[62] Cfr. Processo, III, 32.

[63] Cfr. G. Crispino, La Scuola del Gran Maestro di Spirito S. Filippo Neri, Venezia 1678, 67-68.

[64] Cfr. Processo, II, 23.

[65] Cfr. A. Gallonio, La vita di San Filippo Neri, 11.

[66] Cfr. R. Delcroix, Filippo Neri il santo dell’allegria, 28.

[67] Cfr Lettera di padre Filippo indirizzata a suor M. V. Trevi dell’11 ottobre 1585, in F. Neri, Gli scritti e le massime, 74-80.

[68] Cfr. Processo, I, 235. III, 437-439; il trattato di Angelo Vittori De palpitatione cordis et fractura costarum b. Ph., in Ibid., II, 259-267 e nota 1530. III, 304 e nota 2248 ed anche la sua stessa deposizione in I, 152-153; e la testimonianza di Antonio Porti, ibid., III, 439-445 e nota 2490.

[69] Cfr. Processo, I, 185-186.

[70] Cfr. Processo, I, 271-272.

[71] Cfr. Processo, III, 424; ibid., I, 145; ibid., II, 332.

[72] Cfr. Processo, III, 422; ibid., I, 159; ibid., IV, 35-36.

[73] Cfr. M. Malfer, San Filippo Neri un mistico anti-mistico, Verona 2012, 66-142.

[74] Cfr. F. Neri, Gli scritti e le massime, 162.

[75] Cfr. F. Neri, Gli scritti e le massime, 158.

[76] Cfr. F. Neri, Gli scritti e le massime, 170.

[77] Cfr. F. Neri, Gli scritti e le massime, 172.

[78] Cfr. Processo, III, 156.

[79] Cfr. P. G. Bacci, Vita del beato Filippo Neri, 85-89.

[80] Cfr. J. Gülden, Aggiornamento dell’Oratorio di san Filippo Neri, in Or 1 (1970) 5-28: 24.

[81] Cfr. Processo, III, 156.

[82] Cfr. Processo, IV, 116.

[83] Cfr. Processo, II, 58s.

[84] Lettera di padre Filippo indirizzata a suor M. V. Trevi dell’11 ottobre 1585, in F. Neri, Gli scritti e le massime, 73.

[85] Cfr. Processo, II, 85.

[86] Cfr. F. Neri, Gli scritti e le massime, 152.

[87] Cfr. Processo III, 385.

[88] Cfr. P. L. Boracco, Ascesi e disciplina, in Nuovo Dizionario di Teologia Morale: 49-60, 56s..

[89] F. Neri, Gli scritti e le massime, 150.

[90] P. G. Bacci, Vita del beato Filippo Neri, 149.

[91] Cfr. L. Ponnelle – L. Bordet, San Filippo Neri e la società romana del suo tempo, 507s..00

[92] Cfr. Processo, IV, 145; ibid., II, 245; ibid., IV, 187. 190; ibid., I, 71. III, 102; ibid., IV, 57.

[93] Cfr. Processo, II, 67.

[94] Cfr. Processo, III, 379.

[95] Cfr. P. G. Bacci, Vita del beato Filippo Neri, 145.

[96] Cfr. F. Neri, Gli scritti e le massime, 152.

[97] Cfr G. Papasogli, Filippo Neri. Un secolo – Un uomo, Cinisello Balsamo 19942, 157.

[98] Cfr. L’Oratorio di San Filippo Neri. Itinerario Spirituale, Verona 1995, n 106/b.

[99] Cfr M. T. Bonandonna Russo, La libertà in san Filippo, in Annales Oratorii, 1 (2002), 37-44.

[100] Cfr H. Tercic, Filippo Neri. L’amore vince ogni paura, 196-205.

[101] Cfr. Processo, II, 36. 340.

[102] Cfr. P. G. Bacci, Vita del beato Filippo Neri, 23.

[103] Cfr. A. Cistellini, I lineamenti dell’Oratorio e della Congregazione in antichi memoriali, in Memorie Oratoriane 9 (1982) 11-16.

[104] Cfr. Processo, III, 161.

[105] Cfr. Processo, I, 132.

[106] Cfr A. Talpa, Lettera a P. Pozzo in Palermo, Napoli 17-12-1613, cit. da G. Marciano, Memorie Historiche della Congregatione dell’Oratorio, II, 105.

[107] M. T. Bonadonna, La cultura storica nella Congregazione dell’Oratorio, 69-71 in San Filippo Neri nella realtà romana del XVI secolo, Roma 2000.

[108] Cfr. F. Neri, Gli scritti e le massime, 151.

[109] Cfr. Processo, I, 274; ibid., IV, 166.

[110] Cfr. A. Castagna, San Filippo Neri Eucarestia e carità, Cinisello Balsamo 2015.

[111] Cfr. Idea degli Esercizj dell’Oratorio istituiti da S. Filippo Neri, Venezia 1766, 43.

[112] Cfr. P. G. Bacci, Vita del beato Filippo Neri, 38-50.

[113] Cfr. A. Cistellini, San Filippo Neri. L’Oratorio e la Congregazione, I, 96.

[114] Cfr. Processo, III, 257.

[115] N. Del Re, San Filippo Neri rianimatore della visita alle Sette Chiese, 89-96; in San Filippo Neri nella realtà romana del XVI secolo, Roma 2000.

[116] Cfr. A. Gallonio, La vita di San Filippo neri, 109.

[117] Cfr. G. Cassiani, Padre Filippo e “le Indie”, in Rivista della Storia della Chiesa in Italia 1 (2008) 47-80.

[118] Cfr. Processo, III, 158.

[119] Cfr. A. Talpa, Instituto della Congregatione dell’Oratorio, 7.16.

[120] Cfr. A. Talpa, Instituto della Congregatione dell’Oratorio, 24-25.

[121] Cfr. A. Talpa, Instituto della Congregatione dell’Oratorio, 7.

[122] Cfr. G.B. Arista, Lettera a padre Angelo Zuffi¸ Acireale 27 maggio 1918.